Catalogo della mostra Arturo Lini - Poesia Visiva & Altro, Centro Culturale Ariete, Viareggio (LU), agosto 1988. Stampa tipografia La Darsena, Viareggio (LU), testo critico di Dino Carlesi.
Il mondo figurativo è un altro dei grandi miti che il nostro secolo ha infranto. A torto o a ragione l'altare della verosimiglianza è crollato e sono così aumentate le chiavi di lettura del mondo. Nel secondo dopoguerra i manifesti si aggiunsero ad altri precedenti manifesti e fu tentata la divulgazione teorica di un fenomeno che investiva le radici della rappresentazione artistica e della comunicazione visiva. Il «manifesto dell'astrattismo classico» sancì l'avvento di una distruzione che non era tanto degli «oggetti e delle forme» quanto di ciò che era «vecchio, nostalgico e intimistico» nel mondo spirituale degli artisti figurativi. Tra l'altro, dato il momento storico, per loro la moralità (nei vari lessici: cubista, fauve, espressionista, surrealista, neo-realista ecc.) «non si costituiva in linguaggio» nonostante la «volontà sincera» espressa per difendere certi contenuti sociali. E allora quali altri linguaggi si rendevano necessari? Quali percorsi per comunicare le emozioni? Quello della «poesia visiva» ovvero della «pittura scritta» fu uno dei tanti.
È quello nel quale potremmo collocare il nostro Lini. Sotto la tela o la carta il pensiero dell'artista va tessendo una sua filigrana di emozioni, anche concettuali. Sono idee (in parte anche inconsce?) che non nascono dalla visione della realtà ma dall'idea che di essa il pittore va in sé maturando. In tale filigrana un segno, un accenno di colore, un filo incollato, un vuoto o un pieno di parole si caricano di tutte le signilicazioni possibili, di tutte le allusioni di cui un autore e lettore vogliano tentare l'azzardo. Segno e parola si aiutano a vicenda per creare una «situazione». Perfino una lettera alfabetica (non nella funzione decorativa che fu cara settant'anni fa a un Rosai o a un Soffici o a un Morandi nel loro brevissimo momento futurista) o una sigla poetica o un incastro di collage possono arrivare a caricarsi di sentimenti che aspirerebbero all'universalità e in cui tutti potrebbero riconoscersi. La tela, quindi, può farsi pagina stilizzata di commenti al vivere quotidiano, quasi una «poesia per segni» che tramuta la sostanza delle cose visibili in una forma astratta di quella sostanza. Diceva un filosofo che «la Natura è impassibile»: occorre sempre un uomo che vi inserisca la propria libertà inventiva e che gli elementi conosciuti (luci, ombre, bene, male, suoni, piante, acque, terre ecc.) siano trasfigurati in elementi verbali o cromatici o segnici al fine di organizzarli in una visione che sia capace di spiazzare il lettore ed egli possa sottrarli - potrà sembrare strano! - al caos dell'ordine per reinserirli nel nuovo caos della poesia.
Anche Lini sa bene che non può farsi creatore del mondo o influire sulla vita dei raccolti, sulle carestie o sulla morte, ma sa di possedere il gesto che rivela la coscienza del proprio esistere in rapporto con le cose e con i fenomeni, e sa anche di poter usare l'immagine dipinta o scritta per tramandare (fino a domani mattina o per l'eternità; ma che conta?) la memoria della materia: è il suo modo di «vincere la morte» attraverso la personale resurrezione visiva di un «gesto» da consegnare alla storia della memoria. Mi pare che in Lini (come in altri pittori che sognano queste poetiche) si possa intravedere il baluginare di certe situazioni, conoscitive ed emotive insieme, che devono trovare - per urgenze vitali e morali - la forza per emergere alla luce, per realizzare attraverso simboli e metafore una sintassi imprevedibile, legata strettamente al dramma esistenziale dell'uomo.
I linguaggi (nonostante i tempi che corrono!) non possono (e non debbono) servire solo per scambi pratici - commerciali, burocratici, politici, scientifici - ma anche per segnare il filo sottile di una vibrazione personale, un amore, un sogno, un errore, una rabbia, un'elegia: tutti «momenti» disinteressati e nobili che vivono solo della loro resa di bellezza formale, anche se solo alcuni riescono a coglierla. Momenti «che non rendono» venalmente, sfiorano appena la solennità dei «poteri costituiti» sono perdenti su tutti i piani tranne che su quello del rapporto lirico con gli ingredienti del «quotidiano», che sembrano di nessun valore ma che divengono per alcuni di estremo e assoluto interesse. I fogli segnati sono labili. Li raggiunge un grumo, un segreto, un codice. E l'autore sosta a lungo - figurativo o non figurativo - prima di scegliere un colore, come il poeta sosta nella scelta di un termine: quegli attimi di attesa vivono sulla sospesa fragilità di un esistere che è un continuo morire, e il risultato grafico conseguito è la scansione di un pezzo di vita già tramontata per sempre. La “Poesia bianca” di Lini (1984) è un misterioso messaggio in codice, un vecchio collage che respira la “S” della propria speranza. Dalla “Grande vecchia O” si preannunzia un destino astratto e troppo conosciuto; e il motivo del “due” (che ritroveremo in “Noi due”, (1985), in “Tip-Tap” (1987), e in altre opere) scompone non due spazi ma due coscienze che stentano a ritrovarsi nell'«uno» esistenziale.
“Così potremmo anche vederci” se la sfera potesse tramutarsi in rettangoli - fatica impossibile - e i “Cubofuturismi” (1985) della grande mostra veneziana riemergessero dai canali con l'amorosa insistenza di una memoria non fragile, mentre i due ghirigori in grigio e bianco contano i pochi spiccioli della “Paga del caporale” (1985). Meno male che qualche aquilone sale in cielo “Come una parola nell'aria nei vetri”, (1983), col suo filo di lettere leggere, mentre i giornali ci svelano un oroscopo (“Horoscopus”, 1986) tutto già scritto sul quadrante del tempo, e sempre identico e sempre grigio nella sua monotonia, anche se il giallo di una mimosa preannunzia la gioia di un “Otto marzo” qualsiasi, romanticamente astratto a fianco della rigida verticalità di un feroce grido razionale. Ma le “Periferie” (1987) scandiscono le loro sorprese di quartieri in festa, in cui il cicaleccio delle parole si tramuta nelle note musicali che escono in alto da finestre invisibili ad annunciare il «Gong» della vita, mentre la Monna Lisa si tramuta in “VIR-GINIA” (1987) attraverso il gioco dei termini uomo-donna, e il verde di Quasimodo si fa davvero “Vero e falso verde” (1986), cupo e limpido, come nel libro la sua commedia umana passava dalla felicità alla tragedia. Sui “Bus” (1987) che attendono nella notte caleranno come incubi le metafisiche strisce orizzontali, come le poesie cadranno dai fili per farsi cancellare dal tempo e invano i coriandoli tenteranno di rendere festante il “Grande Carnevale” della vita (1983). Domani, di noi, resterà solo un rettangolo “20X15”, un ridotto destino di carta, e invano partiremo per Firenze a cercare nel grigio del verticale collage quell'amore che già sappiamo essere “Un altro buio” (1983).
Mi chiederete perché in luogo di spiegare i misteri di Lini ho aggiunto altri misteri ai suoi: spero vogliate comprendere che alla poesia non si può rispondere che con la poesia. Forse, sommandole, apparirà all'orizzonte un barlume di luce. È già qualcosa se si pensa al nostro buio di tutti i giorni.
Dino Carlesi: In cerca di un barlume di luce, Lido di Camaiore (LU) luglio 1988.